La cessione delle partecipazioni di società per un corrispettivo pari al valore nominale non fa emergere alcuna plusvalenza imponibile. Essa, tuttavia, presenta alcuni aspetti problematici, sia dal punto di vista civile che da quello fiscale, che saranno esaminati nel presente articolo.
Ed, invero, il Fisco potrebbe sollevare delle contestazioni nel caso in cui accertasse che il corrispettivo della cessione di partecipazioni societarie sia stato determinato sulla base del valore nominale e quest’ultimo non coincida con il valore di mercato. Valore di mercato che, ai sensi dell’art. 9, comma 4, lett. b), del TUIR, deve essere determinato: “per le altre azioni, per le quote di società non azionarie e per i titoli o quote di partecipazione al capitale di enti diversi dalle società, in proporzione al valore del patrimonio netto della società o ente, ovvero, per le società o enti di nuova costituzione, all’ammontare complessivo dei conferimenti”.
Nello specifico, come subito si approfondirà, l’Agenzia delle Entrate, potrebbe, alternativamente:
accertare presuntivamente che il corrispettivo realmente percepito è superiore a quello dichiarato, facendo in tal modo emergere una plusvalenza imponibile da assoggettare a tassazione diretta;
qualificare la cessione come negotium mixtum cum donatione, assoggettando all’imposta di donazione la parte del valore del bene per la quale non è stato corrisposto alcun prezzo.
Orbene, l’art. 68 del TUIR, rubricato “plusvalenze”, dispone al comma 6 che “Le plusvalenze indicate nellelettere c), c-bis) e c-ter) del comma 1 dell’articolo 67 sono costituite dalla differenza tra il corrispettivo percepito ovvero la somma od il valore normale dei beni rimborsati ed il costo od il valore di acquisto assoggettato a tassazione, aumentato di ogni onere inerente alla loro produzione, compresa l’imposta di successione e donazione, con esclusione degli interessi passivi…”.
Sulla base dell’articolo 68 del TUIR che si riferisce al “corrispettivo percepito”, si dovrebbe escludere il potere dell’Amministrazione finanziaria di rettificare il corrispettivo pattuito dalle parti qualora esso risulti inferiore al valore di mercato.
In tal senso, si è espressa la Guardia di Finanza, nella nota n. 47/98 del 19/12/1998, affermando che “Nel caso di cessione della partecipazione, sia che essa dia luogo a plusvalenza, sia, soprattutto, nel caso in cui la vendita generi minusvalenze, deve essere esaminata l’intera operazione allo scopo di accertare se il prezzo praticato sia congruo. Ciò non significa, naturalmente, che i verbalizzanti possano sindacare il corrispettivo praticato dalle parti in regime di libera contrattazione ma soltanto che il prezzo fatturato e contabilizzato sia quello effettivamente pagato dall’acquirente”.
Quanto dichiarato dalla Guardia di Finanza nella nota n. 47/98 del 19/12/1998 sopra trascritta, è stato confermato dalla Suprema Corte di Cassazione, nella Sentenza n. 4057 del 2007, secondo cui: “i principi relativi alla determinazione del valore di un bene che viene trasferito sono diversi a seconda dell’imposta che si deve applicare, sicché quando si discute di imposta di registro si ha riguardo al valore di mercato di un bene, mentre quando si discute di una plusvalenza realizzata nell’ambito di un’impresa occorre verificare la differenza tra il prezzo di acquisto e quello di cessione (Cass. 4914/86; 2101/90; 14448/2000;19548/2005)”. Nella medesima Sentenza n. 4057 del 2007, la Suprema Corte di Cassazione ha inoltre specificato che “è vero tuttavia che, nella fase di accertamento di una plusvalenza patrimoniale realizzata a seguito di cessione di azienda, l’Amministrazione Finanziaria è legittimata a procedere in via presuntiva sulla base dell’accertamento di valore effettuato in sede di applicazione dell’imposta di registro, restando a carico del contribuente l’onere di superare la presunzione di corrispondenza del prezzo incassato col valore di mercato accertato in via definitiva in sede di applicazione dell’imposta di registro, dimostrando di avere in concreto venduto ad un prezzo inferiore (Cass. 14448/2000 e 19548/2005 cit.; 4581/2001; 21055/2005)”.
Secondo la Sentenza n. 4057 del 2007 della Suprema Corte di Cassazione sopra trascritta, pertanto, l’Amministrazione finanziaria non ha il potere di rettificare il corrispettivo pattuito perché inferiore al valore di mercato. L’accertamento dell’inferiorità del prezzo pattuito rispetto al valore di mercato può però essere utilizzato dall’Ufficio per sorreggere la presunzione che il corrispettivo percepito sia difforme da quello dichiarato.
Relativamente alla natura della presunzione (semplice o legale) sopra citata si è pronunciata la Suprema Corte di Cassazione, nella Sentenza n. 3290 del 2012, la quale con riferimento ad un ricorso in cui “L’Agenzia delle Entrate ricorre … per la cassazione della sentenza con cui la Commissione Tributaria Regionale dell’Emilia Romagna, confermando la sentenza di primo grado, ha annullato l’avviso di accertamento per IRPEF 1998, con il quale l’Ufficio aveva recuperato a tassazione la plusvalenza derivante dalla vendita di una quota di partecipazione della contribuente nella società…. Secondo la Commissione Tributaria Regionale la plusvalenza andava determinata non con riferimento al valore di mercato della quota sociale venduta, bensì con riferimento al corrispettivo effettivamente percepito dalla venditrice e l’Ufficio non aveva assolto al proprio onere di dimostrare che la contribuente avesse ottenuto dalla vendita di detta quota un prezzo maggiore di quello dichiarato nell’atto”, ha affermato che “per l’accertamento del corrispettivo di vendita di partecipazioni non azionarie, ai fini della determinazione della plusvalenza tassabile … non può ritenersi sussistente alcuna presunzione legale di conformità tra il “corrispettivo percepito” ed il “valore normale” D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, ex art. 9. Nè a diversa conclusione potrebbe condurre il richiamo della ricorrente all’orientamento di questa Corte secondo cui, ai fini dell’accertamento della plusvalenza patrimoniale realizzata a seguito di cessione dell’azienda, il valore di mercato determinato in via definitiva in sede di applicazione dell’imposta di registro può essere legittimamente utilizzato dall’Amministrazione finanziaria come dato presuntivo, restando a carico del contribuente l’onere di superare la presunzione di corrispondenza tra il valore di mercato ed il prezzo incassato (Cass. 19548/05, 4057/07, 5070/11). Al riguardo va in primo luogo evidenziato che detto orientamento presuppone che il valore di mercato da utilizzare come dato presuntivo ai fini dell’accertamento della plusvalenza abbia formato oggetto di una determinazione definitiva nell’ambito di altro procedimento impositivo (relativo all’imposta di registro), laddove nella presente fattispecie il valore “normale” D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, ex art. 9 della quota di partecipazione sociale che ha generato la plusvalenza di cui si discute non risulta essere stato definitivamente accertato in altri procedimenti impositivi. In secondo luogo, si osserva che l’indirizzo giurisprudenziale in questione non fa riferimento a presunzioni legali, ma valorizza la portata di presunzione semplice che può attribuirsi, per la determinazione della plusvalenza generata dalla cessione di un bene, al valore di mercato che per il medesimo bene è stato definitivamente accertato ai fini dell’imposta di registro. Detto indirizzo non è dunque idoneo a supportare l’argomentazione svolta nel motivo di ricorso in esame, perchè con tale motivo la sentenza gravata viene censurata non sotto il profilo del vizio di motivazione ma sotto il profilo della violazione di legge. Il primo motivo del ricorso principale, conclusivamente, va giudicato infondato, perchè la sentenza gravata non è incorsa in alcuna violazione di legge, in quanto le norme di cui la difesa erariale lamenta la violazione non prevedono alcuna presunzione legale di conformità tra il valore normale D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, ex art. 9 di una partecipazione societaria e il corrispettivo percepito per la vendita della stessa. Ciò naturalmente – è opportuno chiarire – non esclude che l’accertamento del suddetto “valore normale” possa essere concretamente valorizzato dal giudice di merito per sorreggere la presunzione (semplice) che il corrispettivo percepito dalla vendita di una partecipazione societaria sia difforme da quello dichiarato e, invece, conforme al “valore normale”; ma si tratta di valutazioni che rientrano nei poteri di accertamento del fatto del giudice di merito, al quale solo compete l’apprezzamento (non censurabile in sede di legittimità, se non sotto il profilo del vizio di motivazione) circa il ricorso alla prova presuntiva, la ricorrenza dei requisiti di precisione, gravita e concordanza richiesti dalla legge, la scelta dei fatti noti che costituiscono la base della presunzione e il giudizio logico con cui si deduce l’esistenza del fatto ignoto (Cass. 11906/03, 15737/03, 10847/07, 8023/09)”.
Secondo la Sentenza n. 3290 del 2012 della Suprema Corte di Cassazione sopra trascritta, pertanto, la presunzione sopra citata non è legale, bensì semplice; conseguentemente, essa potrà assumere rilevanza ai fini probatori solo nel caso in cui il giudice di merito verifichi la ricorrenza dei requisiti della gravità, della precisione e della concordanza ex art. 2729 c.c.
L’orientamento espresso nella Sentenza n. 3290 del 2012 è stato successivamente ribadito dalla Suprema Corte di Cassazione, nella Sentenza n. 23498 del 2016, in cui i giudici di legittimità hanno rigettato il “motivo del ricorso principale, proposto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3” in cui “l’Agenzia si duole della violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 3, degli art. 2697, 2727 e 2729 c.c., del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 81, comma 1, lett. c) e art. 82, comma 5, e del divieto di abuso del diritto. Sostiene al riguardo che il comportamento palesemente e gravemente antieconomico delle parti, che hanno alienato le quote della s.r.l. per un corrispettivo irrisorio, pari ad una percentuale che va dallo 0,20 al 2% del loro valore, sia elemento presuntivo sufficiente a far ritenere percepito un corrispettivo sensibilmente superiore”, sulla base della seguente motivazione: “Questa prospettazione evidenzia l’incongruenza del richiamo alla clausola antielusiva e del divieto di abuso del diritto: secondo l’ufficio, difatti, quanto dichiarato non corrisponde alla realtà; di contro, l’applicabilità della clausola antielusiva postula l’esatto contrario, ossia che quanto dichiarato sia conforme al vero, sia pure in mancanza di valide ragioni economiche ed al solo fine di conseguire vantaggi altrimenti non conseguibili … l’ufficio finisce con l’evocare come parametro di riferimento la nozione di valore normale richiamata dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, comma 4, lett. b) che impone di assegnare alla quota di società non azionaria, ai fini del suo computo tra i redditi o le perdite, il valore proporzionato a quello del patrimonio netto della società. 3.2.- Sul punto, questa Corte ha già chiarito che altro è il criterio stabilito per la determinazione del valore da attribuire alle partecipazioni sociali ai fini del loro concorso (in positivo o in negativo) alla composizione (e, quindi, alla determinazione) del reddito complessivo del loro possessore; altro è sottoporre a tassazione, quale reddito a sè stante, la diversa ricchezza manifestatasi con il trasferimento della titolarità (e di conseguenza anche del possesso) di quelle azioni o titoli (vedi, in particolare, Cass. 3290/12).3.3.-Ciò non esclude che l’accertamento del suddetto “valore normale” possa essere concretamente valorizzato dal giudice di merito per sorreggere la presunzione (semplice) che il corrispettivo percepito dalla vendita di una partecipazione societaria sia difforme da quello dichiarato e, invece, conforme al “valore normale”; ma si tratta di valutazioni che rientrano nei poteri di accertamento del fatto del giudice di merito, al quale solo compete l’apprezzamento (non censurabile in sede di legittimità, se non sotto il profilo del vizio di motivazione) circa il ricorso alla prova presuntiva, la ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge, la scelta dei fatti noti che costituiscono la base della presunzione e il giudizio logico con cui si deduce l’esistenza del fatto ignoto (Cass. 11906/03, 15737/03, 10847/07, 8023/09; ord. 101/15)” (in tal senso, si veda anche Cass. 16366 del 2020).
Pertanto, alla luce delle Sentenze della Suprema Corte di Cassazione sopra trascritte, è possibile concludere che l’accertamento dell’inferiorità del prezzo pattuito per la cessione di partecipazioni, rispetto al valore normale (art. 9 TUIR) può essere utilizzato dall’Ufficio per sorreggere la presunzione semplice che il corrispettivo percepito sia difforme da quello dichiarato.
Sul punto, si evidenzia che la CTR Liguria, nella Sentenza n. 4 del 2005, ha ritenuto che la mera circostanza dell’accertamento che il prezzo pattuito sia inferiore a quello di mercato non sia idonea da sola a sorreggere la presunzione semplice che il corrispettivo percepito sia superiore a quello dichiarato, affermando che: “Le motivazioni dell’Ufficio alla base della rettifica sono carenti e non sufficienti a supportare un avviso di accertamento.
Ad avviso di questo Consesso, l’Ufficio muove da assunti non dimostrati e non aventi alcun carattere probatorio.
Le argomentazioni e la documentazione prodotta dalla Amministrazione Finanziaria non hanno provato che il prezzo era simulato, ma si sono limitate a rideterminare il valore della azienda e quindi le quote di partecipazione societaria avvalendosi di un metodo estimativo del tutto discutibile. Le prove della simulazione deve essere formulata sulla base di prove certe, precise, concordanti.
L’Ufficio doveva produrre, in tempo opportuno, documentazioni su realtà territoriali similari, una disamina dei movimenti bancari, dichiarazioni dei contribuenti etc. Dovevano dare una prova “logica” che il prezzo era simulato, non possono dare la “prova” solo sulla incongruità del prezzo”.
In alternativa all’accertamento di una plusvalenza tassabile ai fini delle imposte dirette, l’Amministrazione finanziaria potrebbe riqualificare la cessione di quote di partecipazioni ad un prezzo inferiore a quello di mercato come negotium mixtum cum donationem e procedere all’applicazione dell’imposta di donazione.
Come chiarito dalla Suprema Corte di Cassazione, nella Sentenza n. 3175 del 2011, “il “negotium mixtum cum donatione” costituisce una donazione indiretta attuata attraverso l’utilizzazione della compravendita al fine di arricchire il compratore della differenza tra il prezzo pattuito e quello effettivo, per la quale non è necessaria la forma dell’atto pubblico richiesta per la donazione diretta, essendo invece sufficiente la forma dello schema negoziale adottato (Cass. 10-2-1997 n. 1214; Cass. 21-1-2000 n. 642; Cass. 29-9-2004 n. 19601; Cass. 3-11- 2009 n. 23297), considerato che l’art. 809 c.c., nello stabilire le norme sulle donazioni applicabili agli altri atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall’art. 769 c.c., non richiama l’art. 782 c.c., che prescrive l’atto pubblico per la donazione (Cass. 29-3-2001 n. 4623); può qui aggiungersi, quanto alla disciplina da applicare al “negotium mixtum cum donatione”, e dunque a sostegno della opzione per il criterio dello schema negoziale adottato rispetto al criterio della prevalenza, che, facendo la norma sulla forma della donazione parte di quelle disposizioni volte a realizzare la tutela del donante (per evitare che lo spirito di liberalità possa trasformarsi per lui in un pregiudizio), essa, a differenza delle norme che assicurano la tutela dei terzi, non può essere estesa a quei negozi che perseguono l’intento di liberalità con schemi negoziali previsti per il raggiungimento di finalità di altro genere; infatti in tal caso troppo radicale sarebbe il sacrificio dell’autonomia privata alla quale si deve ricondurre il potere delle parti di avvalersi delle figure negoziali per perseguire finalità lecite e, come tali, atte a trovare nell’ordinamento il loro riconoscimento (così in motivazione Cass. 10-2-1997 n. 1214). Questa Corte, anche di recente, ha ribadito che (Cass. n. 7681/2019) nei contratti di scambio, la donazione indiretta è configurabile solo a condizione che le parti abbiano volutamente stabilito un corrispettivo di gran lunga inferiore a quello che sarebbe dovuto, con l’intento, desumibile dalla notevole entità della sproporzione tra il valore reale del bene e la misura del corrispettivo, di arricchire la parte acquirente per la parte eccedente quanto pattuito. Infatti (cfr. Cass. n. 23297/2009), nel “negotium mixtum cum donatione”, la causa del contratto ha natura onerosa ma il negozio commutativo stipulato tra i contraenti ha lo scopo di raggiungere per via indiretta, attraverso la voluta sproporzione tra le prestazioni corrispettive, una finalità diversa e ulteriore rispetto a quella dello scambio, consistente nell’arricchimento, per puro spirito di liberalità, di quello tra i contraenti che riceve la prestazione di maggior valore realizzandosi così una donazione indiretta, sicchè per la validità di tale “negotium” non è necessaria la forma della donazione ma quella prescritta per lo schema negoziale effettivamente adottato dalle parti, sia perchè l’art. 809 c.c., nel sancire l’applicabilità delle norme sulle donazioni agli altri atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall’art. 769 c.c., non richiama l’art. 782 c.c., che prescrive la forma dell’atto pubblico per la donazione, sia perchè, essendo la norma appena richiamata volta a tutelare il donante, essa, a differenza delle norme che tutelano i terzi, non può essere estesa a quei negozi che perseguono l’intento di liberalità con schemi negoziali previsti per il raggiungimento di finalità diverse (conf. ex multis, Cass. n. 1955/2007; Cass. n. 13337/2006; Cass. n. 1266/1986; Cass. n. 6723/1982)”.
Secondo la Sentenza n. 3175 del 2011 della Suprema Corte di Cassazione sopratrascritta, pertanto, la cessione di un bene ad un prezzo irrisorio (inferiore a quello di mercato) configura una vendita mista con donazione, con la conseguenza che “per la validità di tale “negotium” non è necessaria la forma della donazione ma quella prescritta per lo schema negoziale effettivamente adottato dalle parti”.
Tale orientamento è stato di recente ribadito nella Sentenza n. 24040 del 2020, nella quale la Suprema Corte di Cassazione ha delineato il discrimen tra la simulazione relativa e il negotium mixtum cum donationem, affermando che “La differente modalità che con la donazione indiretta si intende percorrere per favorire l’arricchimento del donatario ha consentito lucidamente alla più risalente giurisprudenza di questa Corte di tracciare i confini che delimitano tale ipotesi da quella differente della simulazione, essendosi chiarito che (cfr. Cass. n. 1790/1971) col negozio mixtum cum donatione le parti addivengono ad una donazione indiretta valendosi del negozio che esse dichiarano di porre in essere, e che effettivamente stipulano, per ottenere uno scopo che diverge dalla causa o funzione tipica del negozio medesimo, mentre nella simulazione relativa si stipula apparentemente un negozio, mentre, in realtà, se ne pone in essere un altro con esso incompatibile. Alle due ipotesi corrispondono, per quanto attiene alla volontà delle parti, situazioni di fatto diverse e pertanto il giudice, davanti al quale sia stata ritualmente dedotta solamente una delle due tesi non può prendere in esame l’altra tesi, introdotta con una tardiva difesa (conf. Cass. n. 1303/1970). L’esonero per la donazione indiretta dalla necessità del rispetto del requisito della forma imposta a pena di nullità per la donazione, attesa l’effettiva conclusione del diverso contratto, tramite il quale le parti intendono conseguire il risultato pratico della donazione, rende ancor più evidente la differenza con la diversa ipotesi della simulazione relativa, realizzata mediante la conclusione di un contratto oneroso che in realtà dissimula una donazione, nella quale l’arricchimento investe l’intero valore del bene alienato, e non già, come nell’ipotesi qui in esame, la sola differenza tra il valore effettivo del bene ed il prezzo dichiarato ed effettivamente versato.
Ciò spiega anche la ragione per la quale, ove sia posta in essere una simulazione relativa nei termini ora indicati, la forma imposta dalla legge per la donazione debba essere rivestita dal contratto simulato, a pena di nullità della donazione dissimulata.
Nella simulazione le parti creano un’apparenza al fine di celare all’esterno quale è il loro effettivo programma negoziale, mentre nella donazione indiretta, sub specie di negotium mixtum, l’atto di vendita è effettivamente voluto, quanto meno per la parte coperta dal prezzo effettivamente versato, configurandosi la donazione solo per la parte di valore del bene consapevolmente e volutamente destinata a non trovare una corrispondenza nella controprestazione del donatario, che in tal modo viene arricchito.
Non ignora il Collegio come talvolta in alcuni precedenti di questa Corte si sia fatto riferimento all’istituto della simulazione anche nei casi in cui si controverteva di negotium mixtum (si veda Cass. n. 19099/2009, la cui massima recita: “La parte che deduca, con riferimento ad una determinata vendita, la ricorrenza di un prezzo inferiore a quello effettivo, deve agire in giudizio per far valere la simulazione relativa, nella quale si traduce il “negotium mixtum cum donatione”, e non il mancato pagamento dell’intero prezzo, che integra gli estremi di una simulazione assoluta; ne consegue che, proposta in primo grado la domanda di simulazione assoluta, è inammissibile, ai sensi dell’art. 345 c.p.c., la domanda, proposta in appello, tesa ad accertare che il medesimo contratto di compravendita integrava gli estremi di un “negotium mixtum cum donatione”), ma trattasi evidentemente di un utilizzo del termine operato in maniera del tutto impropria, volto, infatti, a sottolineare l’esigenza di dover fornire la prova, ancorchè senza i limiti invece posti dall’art. 1417 c.c., che la sproporzione tra prezzo dichiarato (ma versato) e valore venale è stata consapevolmente voluta, in quanto frutto dell’animus donandi del disponente.
Pertanto, deve essere ribadito il principio, anche di recente riaffermato da questa Corte secondo cui (cfr. Cass. n. 19400/2019) la donazione indiretta è un contratto con causa onerosa, posto in essere per raggiungere una finalità ulteriore e diversa consistente nell’arricchimento, per mero spirito di liberalità, del contraente che riceve la prestazione di maggior valore; differisce dal negozio simulato in cui il contratto apparente non corrisponde alla volontà delle parti, che intendono, invece, stipulare un contratto gratuito. Ne consegue che ad essa non si applicano i limiti alla prova testimoniale – in materia di contratti e simulazione – che valgono, invece, per il negozio tipico utilizzato allo scopo (conf. Cass. n. 1986/2016). Avendo parte ricorrente chiaramente dedotto, anche alla luce di quanto emergeva dal tenore del codicillo, che in realtà il fratello era stato già beneficiato in vita di una donazione indiretta, il cui valore, alla luce dei criteri di computo sopra indicati, risultava in grado di tacitare i diritti alla quota di riserva al medesimo assegnati per testamento, ed avendo lo stesso giudice di appello chiaramente ricondotto la fattispecie ad un’ipotesi di negotium mixtum cum donatione, è erronea la soluzione della Corte distrettuale che ha ritenuto tale accertamento precluso per la mancata proposizione dell’azione di simulazione, azione che invece non si addice alla vicenda sub iudice.
La sentenza impugnata deve quindi essere cassata in relazione a tale motivo, dovendo il giudice del rinvio, verificare, alla luce del valore dell’azienda alla data della cessione e dell’ammontare del prezzo versato, se tramite tale contratto la de cuius intese porre in essere una donazione indiretta in favore del figlio (anche avuto riguardo alla ricorrenza dell’animus donandi), imputando, nel caso in cui tale verifica abbia esito positivo, il valore della donazione alla quota di legittima dell’attore, secondo quanto imposto dall’art. 564 c.c..”.
Alla luce delle Sentenze della Suprema Corte di Cassazione sopra trascritte, pertanto, la cessione di quote ad un prezzo inferiore a quello di mercato potrebbe essere qualificata come vendita mista a donazione e, conseguentemente essere in parte (per la parte del valore del bene trasferito per il quale non è stato corrisposto alcun prezzo) assoggettata ad imposta di donazione, ai sensi dell’art. 1, comma 1, del D.Lgs. n. 346 del 1990, secondo cui: “L’imposta sulle successioni e donazioni si … ai trasferimenti di beni e diritti per donazione o altra liberalità tra vivi”.
L’Autore:
AVV. Anna Maria Conti