Il principio di inerenza delle spese “incongrue” o “svantaggiose” secondo la Cassazione

Tra le regole generali dirette a disciplinare la determinazione del reddito di impresa, il principio di inerenza assume una particolare rilevanza nella sistematica impositiva. Il principio, difatti, è finalizzato a prevenire la distorsione della funzione impositiva, propria della disciplina della determinazione del reddito di impresa ai fini fiscali, che potrebbe derivare dall’utilizzo della gestione dell’impresa per la soddisfazione di scopi personali o, comunque, non connessi alla funzione economica relativa all’esercizio dell’attività.

Secondo l’ormai consolidato orientamento della Corte di Cassazione il principio di inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione stessa di reddito di impresa ed esprime la necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea ad essa (Cass. n. 2237/2022; Cass. n. 36391/2022; Cass. n. 31288/2021).

Pur avendo i giudici di legittimità emesso numerose ed importanti pronunce sul principio dell’inerenza nella determinazione del reddito d’impresa, continua ad essere oggetto di numerosi dibattiti, soprattutto con riferimento al giudizio di “congruità” del costo rispetto al volume di affari e dell’”antieconomicità”.
Nella recente Sentenza n. 2597 del 2022, depositata in data 28/01/2022, la Suprema Corte di Cassazione è tornata ad affrontare il tema dell’indeducibilità di un costo (nello specifico di spese di pubblicità) per difetto dell’inerenza, in quanto ritenuto sproporzionato rispetto al volume d’affari della società e, dunque, antieconomico.

La vicenda aveva ad oggetto l’emissione da parte dell’Agenzia delle Entrate di un avviso di accertamento, con il quale l’Ufficio aveva accertato una maggiore pretesa impositiva, per effetto del disconoscimento delle spese contabilizzate da parte del contribuente a titolo di pubblicità, in quanto ritenute abnormi rispetto all’attività esercitata dalla stessa.
I giudici di legittimità, prima di affrontare la questione sottoposta alla loro attenzione, si soffermano preliminarmente sulla nozione giuridica di inerenza. Seguendo un’ormai costante orientamento, la Corte precisa che l’art. 109, comma 5, del d.P.R. 917 del 1986 non può considerarsi il fondamento giuridico del concetto di inerenza, al contrario esso “rappresenta un mero “contenitore”, in cui è semplicemente prevista l’indeducibilità dei costi che dovessero risultare estranei all’attività svolta (…) in tema di imposte sui redditi delle società, il principio dell’inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito di impresa, non invece dall’art. 109 comma 5 (…) del d.P.R. appena richiamato, riguardante il diverso principio della correlazione tra i costi deducibili e ricavi tassabili”.

Sulla base di tale ricostruzione la Suprema Corte di Cassazione, dopo aver precisato che il giudizio sull’inerenza è di carattere qualitativo e non quantitativo, arriva alla illogica conclusione secondo cui le spese incongrue ovvero svantaggiose devono considerarsi come “indici rivelativi della mancanza di inerenza”.
La Sentenza in commento, oltre ad essere contradditoria, si pone in contrasto con il principio di diritto delineato nella recente Sentenza n. 262 del 2020 della Corte costituzionale.
In tale sede, il Giudice delle leggi ha sancito che l’inerenza di un costo richiede un “giudizio di carattere qualitativo, che prescinde in sé da valutazioni di tipo utilitaristico o quantitativo”.

In modo conforme al principio sopra trascritto, enunciato dalla Corte costituzionale (Sent. n. 262/2020), si è pronunciata la Corte di Cassazione, nella Sentenza n. 30024, depositata il 26/10/2021.
Nella sopracitata sentenza, i giudici di legittimità precisano che l’inerenza di un costo all’attività di impresa “deve essere apprezzata attraverso un giudizio qualitativo, scevro dai riferimenti ai concetti di utilità o vantaggio, afferenti ad un giudizio quantitativo”. Mentre, l’antieconomicità e l’incongruenza della spesa
assumono rilievo, sul piano probatorio, “come indici sintomatici della carenza di inerenza”, senza mai, dunque, assurgere al rango di prova.
Non può, dunque, condividersi la posizione assunta dalla Suprema Corte, nella recente Sentenza n. 2597 del 2022, la quale, come sopra rappresentato, si pone in contrasto sia con il principio di diritto enunciato dalla Corte costituzionale (Sent. n. 262/2020) che con i precedenti orientamenti della stessa giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 30024/2021; Cass. n. 6368/2021)
A ciò si aggiunga che, la commistione tra inerenza e valutazione dell’economicità dell’azione imprenditoriale comporterebbe un’indebita ingerenza dell’Amministrazione finanziaria nelle scelte imprenditoriali, consentendo, così, all’Ufficio impositore di disconoscere la deducibilità di un costo, in quanto, a suo dire, incompatibile con i presupposti dell’inerenza, perché incongruo ovvero antieconomico.
Invero, secondo quanto statuito dalla Corte di Cassazione, nella Sentenza n. 30024 del 2021, il principio di inerenza deve essere inteso quale espressione di riferibilità dei costi sostenuti nell’attività di impresa, anche “in via indiretta, potenziale o in proiezione futura”, escludendo, dunque, solo i costi che si collocano in una sfera ad essa estranea.
Mentre, la presunta antieconomicità ovvero l’incongruità di un costo possono costituire, sul piano probatorio, o meri indizi di un’operazione fittizia ovvero elementi di una presunzione di estraneità dell’operazione all’attività di impresa, non potendo comportare automaticamente l’indeducibilità della spesa.

L’Autore:
Dott.ssa Sofia Ludovica Giurlani

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