Accertamento privo di documento essenziale richiamato ma non allegato: nullo anche se il documento è prodotto in giudizio

La Corte di Cassazione, con la recentissima Sentenza n. 7649/2020, ha stabilito il principio secondo cui, in caso di motivazione per relationem, qualora l’Amministrazione finanziaria integri i documenti nel corso del giudizio di appello, dopo aver omesso di allegarli o riportarli nell’iniziale atto impositivo, l’atto deve considerarsi nullo, non rilevando la previsione di cui all’art. 58, co. 2, D.lgs. 546/1992, che consente alle parti di produrre liberamente i documenti anche in sede di gravame, seppur preesistenti al giudizio svoltosi in primo grado. 

Giova, per meri fini di chiarezza, compiere un passo indietro e soffermarsi dapprima sulla distinzione tra motivazione e prova, al fine di non incorrere nell’errore di confondere la carenza di motivazione dell’atto impositivo con la carenza di prova del maggior valore accertato. 

Come infatti affermato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 955/2016, diverse ed entrambe essenziali, sono le funzioni che la motivazione dell’atto impositivo e la prova dei fatti che ne sono posti a fondamento sono dirette ad assolvere, poiché, mentre la motivazione dell’atto “ha la funzione di delimitare l’ambito delle contestazioni proponibili dall’Ufficio nel successivo giudizio di merito e di mettere il contribuente in grado di conoscere l’an e il quantum della pretesa tributaria al fine di approntare una idonea difesa, sicché il corrispondente obbligo deve ritenersi assolto con l’enunciazione dei presupposti adottati e delle relative risultanze”, la prova, invece, “attiene al diverso piano del fondamento sostanziale della pretesa tributaria ed al suo accertamento in giudizio in presenza di specifiche contestazioni dello stesso”. 

Pertanto, solo la motivazione si configura come elemento essenziale dell’atto impositivo, posto che, la prova dei fatti dedotti a sostegno della pretesa non è richiesta come elemento costitutivo dell’atto e, la sua mancanza non può incidere sulla validità dello stesso, ben potendo essere fornita in un momento successivo, in sede processuale, quando si procede alla verifica della fondatezza sostanziale della pretesa fiscale.

Premesso quanto sopra, come noto, l’obbligo di motivazione degli atti impositivi previsto dall’art. 7 della L. n. 212/2000 (c.d. Statuto dei diritti del Contribuente), si pone come strumento di garanzia del diritto di difesa del contribuente. Diritto di difesa che risulta effettivamente garantito solo nella misura in cui il contribuente sia posto nella condizione di conoscere, sin dalla fase iniziale di notifica dell’atto, tutti gli elementi posti a fondamento della pretesa fiscale. La motivazione dell’atto impositivo mira infatti a “delimitare l’ambito delle ragioni adducibili dall’Ufficio nella successiva fase contenziosa ed, altresì a consentire al contribuente l’esercizio del diritto di difesa. È, pertanto, necessario a tal fine che l’atto stesso contenga gli elementi essenziali, comprensivi dell’allegazione dei documenti richiamati in motivazione, se non già noti al contribuente” (Cass. n. 4070/2020). 

Il requisito formale della motivazione dell’atto impositivo di cui all’art. 7, può ritenersi assolto anche attraverso la motivazione per relationem, ossia mediante il riferimento ad elementi di fatto risultanti da altri atti o documenti, a condizione che questi ultimi siano allegati all’atto notificato, ovvero riprodotti nel loro contenuto essenziale. Tale forma di motivazione, al fine di consentire un pieno e consapevole esercizio del diritto di difesa, deve essere in grado di garantire al contribuente una completa cognizione degli elementi posti alla base della pretesa fiscale. Particolare rilevanza ha quindi assunto la questione della conoscenza o della conoscibilità degli atti richiamati. Questione che si è sviluppata intorno alla necessità, ai fini della legittimità della motivazione, che l’atto richiamato sia effettivamente conosciuto dal contribuente.  

Svolti questi brevissimi cenni, è possibile tornare ora alla pronuncia della Suprema Corte oggetto del presente articolo.

Nel caso di specie, la controversia traeva origine dal ricorso di una società campana avverso l’avviso di rettifica e liquidazione di maggior valore emesso dall’Agenzia delle Entrate per l’acquisto di un complesso immobiliare. Ad avviso della contribuente, nell’atto impositivo, oltre al generico richiamo ad atti di compravendita di immobili con caratteristiche similari, per di più non allegati, non erano stati resi noti gli elementi concreti in base ai quali l’Ufficio era pervenuto ad una diversa stima.

La CTP di Napoli, in accoglimento del ricorso della contribuente, annullava l’atto impositivo.
L’Ufficio proponeva quindi appello, provvedendo, solo in queste sede, all’integrazione della motivazione, producendo in giudizio atti di compravendita di immobili con caratteristiche similari a quelli oggetto di contestazione. La CTR della Campania, in riforma della decisione della CTP di Napoli, accoglieva così il ricorso dell’Agenzia delle Entrate. 

La società proponeva, pertanto, ricorso in Cassazione, lamentando la violazione da parte della CTR degli artt. 51 e 52 del D.P.R. n. 131 del 1986, nonché, in particolare, dell’art. 58, D. Lgs. 546/1992, per avere i giudici di secondo grado basato la propria decisione su documenti prodotti dall’Ufficio per la prima volta in sede di appello.

I giudici della Suprema Corte, dopo aver preliminarmente rilevato la non sussistenza di violazioni di carattere processuale imputabili all’Agenzia, hanno stabilito che “una volta riconosciuto che l’Ufficio – come attestato dai giudici di prime cure – in sede di emissione dell’avviso di rettifica in questione era venuto meno all’obbligo imposto dal cit. art. 52, non rendendo noti gli elementi concreti in base ai quali era pervenuto alla diversa stima oggetto della contestazione e solo in sede di appello provveduto alla integrazione della motivazione mediante l’allegazione di atti di compravendita di immobili con caratteristiche similari a quelli oggetto di contestazione, la conseguenza che ne deriva è quella per cui la decisione della CTR impugnata è risultata basata su elementi che non potevano essere presi in considerazione perché non richiamati e allegati all’avviso di accertamento e, comunque, nemmeno esposti nelle difese di primo grado”.

Ad avviso dei giudici della Corte, pertanto, l’obbligo di motivazione previsto a pena di nullità per gli atti impositivi, impone non solo che i provvedimenti debbano contenere i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche poste a fondamento del provvedimento, ma anche che, qualora la motivazione faccia riferimento ad altro atto non conosciuto dal contribuente, questo debba necessariamente essere allegato, ovvero richiamato mediante la riproduzione del suo contenuto essenziale, non potendo l’Ufficio che abbia omesso tali incombenze, integrare i documenti nel corso dell’appello. 

L’ auspicio è che a queste pronunce rimarcanti la necessità di completezza della motivazione, possa far seguito anche un adeguamento degli Uffici, che troppo spesso integrano in pendenza di giudizio originarie carenze motivazionali dei propri atti impositivi, limitando irreparabilmente il diritto di difesa del contribuente. 

Dott.ssa Ludovica Niscola

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