Libertà di stabilimento ed esterovestizione: l’orientamento della Corte di Cassazione.
La circostanza che una società sia stata costituita all’estero per fruire di una legislazione più vantaggiosa non costituisce per se stessa un abuso della libertà di stabilimento. Secondo i giudici della Cassazione, una misura nazionale che restringa tale libertà è ammessa unicamente ove riguardi costruzioni di puro artificio finalizzate solamente ad eludere la normativa dello Stato membro interessato. Ogni barriera eretta dagli Stati membri che, di fatto, limiti l’attività dell’operatore economico contrasta con il diritto di quest’ultimo di godere di una propria libertà fondamentale.
Ai sensi dell’articolo 73 del TUIR, ai fini delle imposte sui redditi « si considerano residenti le società che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato ».
Tali criteri di radicamento – uno di natura formale (la sede legale) e gli altri due di carattere sostanziale (la sede dell’amministrazione e l’oggetto principale) – sono fra loro alternativi ed è quindi sufficiente il realizzarsi di uno solo di essi affinché la società, l’ente o il trust vengano sottoposti a tassazione in Italia, sulla base del noto principio dell’imposizione su base mondiale (worldwide taxation).
Al fine di evitare fenomeni di c.d. « doppia imposizione », vari Stati hanno stipulato fra loro specifici accordi internazionali contro le doppie imposizioni sul reddito e sul patrimonio, i quali intervengono per dirimere i casi in cui il contribuente è considerato residente in entrambi i Paesi contraenti, conferendo prevalenza al parametro della « sede di direzione effettiva », intesa come il luogo ove hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell’ente e si convocano le assemblee, ossia il luogo deputato, o stabilmente utilizzato, per l’accentramento degli organi e degli uffici societari in vista del compimento degli affari e dell’impulso dell’attività dell’ente: tale luogo coincide con la sede dell’amministrazione.
Per « oggetto principale » si intende, invece, il luogo in cui si concretizzano gli atti produttivi e negoziali dell’ente, nonché i rapporti economici che esso intrattiene con i terzi e si sostanzia nell’attività essenziale per realizzare gli scopi primari indicati dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto, ove esistenti in forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata.
Con particolare riferimento al tema della libertà di stabilimento, sancita dagli articoli 49 e seguenti del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, sono recentemente interventue due Sentenze della Corte di Cassazione (n. 33234/2018 e n. 14527/2019), le quali hanno risolto due diversi e complessi casi di presunta esterovestizione societaria.
Nel primo caso, l’Agenzia delle Entrate ravvisò nell’operazione del contribuente un meccanismo volto a usufruire, in Lussemburgo, di un trattamento fiscale privilegiato, ritenendolo artificioso, poiché ne collocava il centro decisionale dell’ente in Italia e non all’estero, ove, a dire dell’Ufficio, la società non disponeva di struttura amministrativa. Ne derivava, quindi, il conseguente avviso di accertamento attraverso il quale veniva contestata l’omessa presentazione delle dichiarazioni fiscali ed effettuato il relativo recupero a tassazione.
Nel secondo caso, invece, una società olandese chiedeva, ai sensi dell’articolo 27 bis del d.P.R. n. 600/1973 e della Convenzione tra Italia e Paesi Bassi sulle doppie imposizioni, la restituzione della ritenuta del 15% applicata sui dividendi distribuiti. L’Amministrazione finanziaria effettuava, a seguito di controllo meramente formale, il rimborso richiesto, per poi ritenere, a seguito di successivo controllo sostanziale, che la società fosse stata in realtà fittiziamente costituita all’estero allo scopo di beneficiare del regime agevolato di tassazione favorevole dei dividendi previsto dalla Convenzione e del regime di esenzione dei dividendi dalle imposte vigente in Olanda. L’agenzia delle Entrate provvedeva, pertanto, ad emettere provvedimento di diniego dell’esenzione tributaria, con contestuale richiesta di restituzione del rimborso già percepito ma, a suo dire, non spettante.
In via preliminare, la Corte di Cassazione ha ricordato che ha già avuto modo di chiarire che « per esterovestizione s’intende la fittizia localizzazione della residenza fiscale di una società all’estero, in particolare in un Paese con un trattamento fiscale più vantaggioso di quello nazionale, allo scopo, ovviamente, di sottrarsi al più gravoso regime nazionale » (Cass. n. 2869/2013).
Perché, tuttavia, questo meccanismo assuma una connotazione abusiva, « occorre, per un verso, che esso abbia come risultato l’ottenimento di un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito dalle norme e, dall’altro, che da un insieme di elementi oggettivi risulti che lo scopo essenziale dell’operazione si limiti all’ottenimento di tale vantaggio fiscale ».
In tal senso, infatti, in linea con un consolidato orientamento della giurisprudenza comunitaria, « quando il contribuente può scegliere tra due operazioni, non è obbligato a preferire quella che implica il pagamento di maggiori imposte, ma, al contrario, ha il diritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli consenta di ridurre la sua contribuzione fiscale » (Corte di Giustizia dell’Unione europea nella causa C-419/2014, considerando 42).
Essendo l’obiettivo cui mira il principio della « libertà di stabilimento » quello di permettere ad un cittadino di uno Stato membro di creare uno stabilimento in un altro Stato membro per esercitarvi le proprie attività, la circostanza che una società sia stata costituita all’estero per fruire di una legislazione più vantaggiosa non costituisce per se stessa un abuso di tale libertà.
Secondo i giudici della Cassazione, una misura nazionale che restringa tale libertà è ammessa unicamente ove riguardi costruzioni di puro artificio finalizzate solamente ad eludere la normativa dello Stato membro interessato.
La nozione di stabilimento implica l’esercizio effettivo di un’attività economica reale, per una durata di tempo indeterminata, attraverso un insediamento concreto dell’ente nello Stato membro.
Ne consegue che, « perché sia giustificata da motivi di lotta a pratiche abusive, una restrizione alla libertà di stabilimento deve avere lo scopo specifico di ostacolare comportamenti consistenti nel creare costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica e finalizzate ad eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale ».
Affinché non ricorra una costruzione di puro artifizio è, pertanto, sufficiente che il soggetto residente all’estero eserciti l’attività mediante una « realtà economica effettiva » e attraverso l’esistenza di « elementi oggettivi » (e verificabili da terzi) in termini di presenza fisica, di locali, di personale e di attrezzature (Corte di Giustizia C-196/04).
Sulla base dei suddetti principi, la Corte di Cassazione ha, nella prima ipotesi (Cass. 33234/2018), dichiarato la « sbrigativa » valutazione del giudice d’appello, poiché, nel caso concreto, non fu valutata l’effettiva attività comunque svolta in Lussembrugo (« qualcosa in Lussemburgo effettivamente si faceva »), emergente proprio dalla corrispondenza e-mail attestante l’adempimento delle due dipendenti lussemburghesi alle direttive impartite da Milano; mentre nella seconda ipotesi (Cass. 14527/2019) ha affermato che la nazionalità o residenza degli amministratori non è di per sé sintomatica dell’ubicazione della sede dell’amministrazione effettiva sul territorio dello Stato membro di residenza o di nazionalità degli amministratori stessi, in quanto rilevano, in tal senso, il luogo di svolgimento dei consigli di amministrazione e delle assemblee dei soci, nonché il luogo di materiale disponibilità dei locali necessari ai fini dello svolgimento delle attività di amministrazione e gestione.
Occorre, tuttavia, precisare che, per quanto riguarda questo secondo caso, la Corte ha applicato la disciplina vigente all’epoca dei fatti: epoca nella quale non era ancora in vigore l’attuale comma 5 bis dell’articolo 73 del TUIR, che introduce nel nostro ordinamento giuridico una vera e propria presunzione di esterovestizione, in presenza di determinate circostanze. Infatti, « salvo prova contraria, si considera esistente nel territorio dello Stato, la sede dell’amministrazione di società ed enti, che detengono partecipazioni di controllo (…) se, in alternativa:
- sono controllati, anche indirettamente (…) da soggetti residenti nel territorio dello Stato;
- sono amministrati da un consiglio di amministrazione, o altro organo equivalente di gestione, composto in prevalenza di consiglieri residenti nel territorio dello Stato.
In tal modo, il contribuente, per superare la presunzione, dovrà dimostrare, con argomenti adeguati e convincenti, che il luogo della sede di direzione effettiva dell’ente è situato al di fuori del territorio nazionale. Più precisamente, tali argomenti e prove dovranno documentare che, nonostante i presupposti di applicabilità della norma, esistono elementi di fatto o atti idonei a dimostrare un concreto radicamento della direzione effettiva nello Stato estero.
Le pronunce in commento non fanno altro che confermare il principio secondo cui, per la corretta determinazione della sede dell’amministrazione di una società, risulta inutile ed inefficace una formula astratta che prescinda dal contesto di riferimento; occorrerà, infatti, determinare, aldilà delle mere risultanze formali, dove concretamente si esprime la gestione dei rapporti giuridici connessi all’attività svolta dall’ente.
Su tali basi, lede, pertanto, il diritto di libero stabilimento qualsivoglia norma o interpretazione che possa ostacolare la scelta di insediamento del contribuente, la cui valutazione complessiva deve risultare in ogni caso incontestabile ed inopponibile. Ogni barriera eretta dagli Stati membri che, di fatto, limiti, in tal senso, l’attività dell’operatore economico contrasta con il diritto di quest’ultimo di godere di una propria libertà fondamentale.
In buona sostanza, la Corte di Cassazione afferma che, in tema di esterovestizione, non è necessario accertare la sussistenza di ragioni economiche diverse da quelle relative alla convenienza fiscale (ben potendo quest’ultima rappresentare l’unica ragione di trasferimento all’estero), occorrendo solamente verificare che non si sia addivenuti alla creazione di una forma giuridica che non riproduca una genuina realtà economica.
L’auspicio è che queste pronuncie possano favorire l’arduo percorso di internazionalizzazione delle imprese, limitando il più possibile tutti quegli avvisi di accertamento che si avvalgono del trasferimento della sede all’estero per scopi impositivi manifestamente pretestuosi.
L’Autore:
DOTT. Edoardo Giontella