Variazione IVA per mancato pagamento: contrasto della norma interna con la Direttiva

Variazione IVA per mancato pagamento: contrasto della norma interna con la Direttiva

La base imponibile è costituita dal corrispettivo realmente ricevuto e il cui corollario è che l’amministrazione fiscale non può riscuotere a titolo dell’IVA un importo superiore a quello percepito dal soggetto passivo” (C-127/18; C-672/17; C-462/16; C-337/13; C-588/10).
Così si è più volte pronunciata la Corte di Giustizia dell’Unione europea a proposito della corretta interpretazione da attribuire all’articolo 90, paragrafo 1, della Direttiva 2006/112/CE, relativamente alla riduzione della base imponibile IVA in caso di mancato pagamento del debitore. Secondo i giudici unionali, tale disposizione costituisce un principio fondamentale della Direttiva IVA, il quale obbliga gli Stati membri a ridurre la base imponibile e, quindi, l’importo dell’imposta sul valore aggiunto dovuta dal soggetto passivo ogni volta che, successivamente alla conclusione di un’operazione, non viene percepita dal soggetto passivo una parte o la totalità del corrispettivo. Pertanto, su tali basi, qualora il soggetto passivo non riceva il pagamento dal proprio cliente, esso non dovrebbe essere neanche materialmente debitore dell’IVA, non avendo il soggetto passivo operato, in definitiva, alcuna cessione o altra prestazione a titolo oneroso, ai sensi dell’articolo 2 della Direttiva stessa.
Giova, peraltro, prendere in considerazione anche il principio di neutralità dell’IVA. Da un lato, esso osta a che soggetti economici che effettuano le stesse operazioni subiscano un trattamento differenziato in materia di riscossione dell’IVA. Dall’altro, in forza di tale principio, il soggetto passivo deve essere sgravato dall’onere finale dell’IVA, nella misura in cui l’attività imprenditoriale sia diretta alla realizzazione di operazioni imponibili. Orbene, qualora l’impresa che cede il bene o che fornisce la prestazione sia tenuta a versare per anni un’imposta sul valore aggiunto che non ha potuto riscuotere, l’anticipo di pagamento diventa per essa un onere significativo che non può che far venir meno il principio di neutralità dell’IVA.
Il legislatore italiano, avvalendosi della possibilità di deroga di cui al paragrafo 2 del citato articolo 90 (“In caso di non pagamento totale o parziale, gli Stati membri possono derogare al paragrafo 1”), ha di fatto drasticamente inquadrato le uniche ipotesi in cui è possibile emettere una nota di variazione in diminuzione ai fini IVA nel caso di inadempimento contrattuale. Possibilità di deroga volta evidentemente ad evitare possibili frodi o evasioni a seguito dell’immissione in consumo di un bene o servizio e volta a tutelare il Fisco dal difficile accertamento circa la veridicità e non mera provvisorietà del mancato pagamento. Possibilità di deroga che dovrebbe, tuttavia, essere interpretata restrittivamente, anche con riguardo al principio di neutralità, e che, come più volte affermato dalla Corte di Giustizia, deve essere giustificata.
Secondo il legislatore italiano (secondo comma dell’articolo 26 del Decreto IVA), non ogni mancato pagamento del corrispettivo legittima la possibilità di effettuare una riduzione della base imponibile attraverso la variazione in diminuzione, ma unicamente il “mancato pagamento” derivante da un’insolvenza del debitore ormai irreversibile, poiché derivante dalla chiusura di procedure esecutive individuali o concorsuali rimaste infruttuose (ovvero dall’omologazione dell’accordo di ristrutturazione del debito). In altre parole, il contribuente italiano potrebbe recuperare l’imposta versata anticipatamente all’Erario solo quando sia certa l’irrecuperabilità del suo credito.
La suddetta disposizione nazionale produce inevitabilmente l’effetto di rinviare nel tempo il diritto al recupero dell’imposta versata tempestivamente all’Erario e addebitata per rivalsa (obbligatoria) al cliente, ma da questi non corrisposta. E non si può trascurare come l’obbligo di riscuotere, per conto dello Stato, un’imposta da terzi, costituisca un’ingerenza in diritti fondamentali quali  la libertà professionale, la libertà d’impresa e il diritto di proprietà, così come attualmente sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali. Ogni limitazione di tali diritti deve essere proporzionata. Come può dirsi, tale “pre-finanziamento” (raccolta e versamento di imposte altrui senza ricevere l’importo dal reale debitore dell’IVA) proporzionato, in un sistema, come quello italiano, ove i tempi di un contenzioso che termina con una procedura concorsuale o esecutiva superano sovente dieci anni?
La questione decisiva è, pertanto, non se uno Stato membro possa escludere una variazione in diminuzione in caso di mancato pagamento: dalle considerazioni sopra esposte risulta chiaramente che non possa farlo. Decisiva è piuttosto l’individuazione del limite temporale entro il quale una deroga alla rettifica sia giustificata. L’aspetto di delicatezza relativo alla tematica in esame è rappresentato dalla seguente questione: è compatibile con l’articolo 90, paragrafo 1, della Direttiva, una disposizione nazionale, come quella di cui al comma 2 dell’articolo 26 del d.P.R 633/72, che impedisca la possibilità di rettifica fino a che non sia definitivamente certa l’irrecuperabilità del credito (a conclusione della procedura concorsuale o dell’azione esecutiva individuale, che ben possono durare molti anni), oppure tale possibilità di rettifica dovrebbe essere prevista già qualora, con elevata probabilità, non ci si possa più attendere, in termini brevi, un pagamento?
A nulla sembrerebbe ovviare neppure il regime di cui all’articolo 32bis del D.L. 83/2012, applicabile previa opzione del contribuente, secondo il quale l’imposta sul valore aggiunto diviene esigibile unicamente al momento del pagamento dei relativi corrispettivi (c.d. “tassazione per cassa”). E questo perché, da un lato, la norma è applicabile unicamente ai soggetti passivi con volume d’affari non superiore a due milioni di euro.
Dall’altro, perché, anche in applicazione della suddetta norma, l’imposta diviene comunque esigibile dopo il decorso del termine di un anno dal momento di effettuazione dell’operazione.
Alla luce di quanto sin qui esposto, ad avviso dello scrivente, la possibilità di poter operare una variazione in diminuzione dovrebbe sussistere tutte le volte in cui il cessionario o committente opponga un rifiuto definitivo al pagamento, ossia ogniqualvolta da tale inadempimento si determini un contenzioso, e anche nel semplice caso in cui il rifiuto di adempiere risulti per iscritto o tacitamente, dopo il decorso, in tal caso, del termine di sei mesi da una eventuale richiesta di adempimento. La possibilità di deroga, ai sensi del paragrafo 2 dell’articolo 90, concessa ai singoli Stati membri, deve essere ragionevole e, quindi, l’onere di provare la conclusione di una procedura concorsuale, ovvero l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione del debito, o ancora di aver esperito tutte le azioni volte al recupero del proprio credito senza trovarvi soddisfacimento, costituisce, a mio avviso, una limitazione sproporzionata, “tale da far sopportare agli imprenditori soggetti a detta legislazione, uno svantaggio in termini di liquidità rispetto ai loro concorrenti di altri Stati membri manifestamente in grado di compromettere l’obiettivo di armonizzazione fiscale perseguito dalla Sesta Direttiva” (Corte di Giustizia nella Causa C-246/16).
Sul punto, data la delicatezza della questione sarebbero auspicabili interventi normativi nel senso prospettato, anche perché, si ribadisce ancora una volta, se la rettifica costituisce effettivamente l’espressione di un principio fondamentale della Direttiva IVA, secondo il quale la base imponibile è costituita dal corrispettivo realmente ricevuto e dal quale discende che l’Erario non può riscuotere a titolo di imposta sul valore aggiunto un importo superiore a quello percepito dal soggetto passivo, l’elemento decisivo, legittimante la nota di variazione, non può che essere, allora, unicamente il mancato pagamento del corrispettivo. Soprattutto in sistemi giurisdizionali come quello italiano, che certo non brilla quanto a celerità, e soprattutto in un momento economico, come quello presente, dove gli inadempimenti e la litigiosità dettati dalla crisi sono divenuti all’ordine del giorno.
 
L’Autore:
DOTT. Edoardo Giontella

Le Sezioni Unite Si Pronunciano Sulle Regole Di Assoggettamento Ad Imposta Di Registro Per Gli Atti Che Enunciano Disposizioni Di Altri Atti – Aumenti Di Capitale Con Rinuncia Al Credito Da Finanziamento SociIl contribuente ha diritto al rimborso degli importi versati all’Amministrazione finanziaria in conseguenza di un avviso di accertamento fondato su fatti materiali ritenuti insussistenti dal giudicato penale, anche se divenuto definitivoDiritto al rimborso dell’IMU versata sull’abitazione principale dell’altro coniuge: la Sentenza della Corte Costituzionale n. 209 del 2022La Corte di Cassazione disapplica le norme interne in tema di sanzioni doganali applicando il principio di proporzionalitàNuovo Codice della Crisi e della Insolvenza e adozione del Modello 231: un passo ulteriore verso l’obbligatorietà de facto